Tamales bogotanos




 Posso dire che un pezzo del mio cuore è rimasto in Colombia, a Bogotà, da quando sono stata in quella città pazzesca. E so per certo che il futuro della gastronomia mondiale sarà dominato, nei prossimi 15 anni almeno, dalla cucina sud americana. Tocca a loro, adesso, portare avanti il vessillo della creatività e dell’innovazione sulla base di una biodiversità e di un valore di materie prime che raggiungono in molte regioni latino americane i massimi livelli.

Poiché nulla di nuovo si costruisce se non si parte dalle radici, ecco un piatto davvero radicato nella cultura colmbiana: i tamales.  Cibo di stratta, ma anche piatto delle feste, una fra tutte la Navidad di questo periodo, di origini messicane, è costituito da una polenta a base di farina di mais arricchita da carni, verdure e spezie, cotto e servito dentro foglie di mais (Messico) o di banano (Colombia).
 
La dimensione è molto abbondante poiché si tratta di un piatto unico: 1 tamal si compone generalmente di una tazza colma di polenta a cui si aggiunge, ad esempio, una coscia di pollo, una costina di maiale, un uovo sodo, dei piselli,  dei ceci e varie verdure. La costante dei tamales bogotanos, di Bogotà,  è quella di includere questi due tipi di carne.

 La forma è spesso quella di un pacchetto rettangolare formato dalle foglie che racchiudono l’insieme degli ingredienti commestibili (le foglie non si mangiano, mi raccomando!). Ma possiamo trovare anche forme a fagotto, sicuramente più facili e rapide da realizzare.

Il tempo di cottura varia a seconda delle dimensioni. Io ho preparato dei tamales piccoli, immaginando di servirli come antipasto o entrée a cui segue un piatto principale; così hanno richiesto una cottura di 1 e ½- 2 ore. Se di grandi dimensioni, ci avviciniamo alle 3 ore.

Come per tutte le ricette che hanno una lunga tradizione e fanno parte della cultura popolare tramandata di madre in figlia, ci sono varianti e procedure infinite per realizzarli. Quando se ne devono preparare in grandi quantità, si cuoce in anticipo sia la polenta (detta “masa”), sia la carne, le quali andranno inserite nelle foglie chiuse a pacchetto Se si appoggiano i pacchetti uno sull’altro all’interno di una pentola alta in modo che non si possano muovere, non ci sarà bisogno di legarli (del resto gli ingredienti sono già cotti).
La cottura può essere a vapore (come ho fatto nella mia ricetta) o direttamente in un poco d’acqua che rimane sul fondo della pentola. Un metodo ottimo è quello di mettere 4 dita di acqua in una pentola alta, aggiungere gli scarti delle foglie di banano affinché ricoprano il fondo, poi adagiare i tamales uno sull’altro a riempirla, che cuoceranno per l’azione del vapore. L’acqua bollente andrà rimpiazzata via via durante la cottura.

Ho sostituito i ceci con i piselli, non di stagione, ma la maggior parte delle ricette prevedono questi ultimi, essendo uno dei principali prodotti ortofrutticoli del paese. Al posto dei pezzi di maiale e cosce di pollo ho inserito la salsiccia e la carne in piccoli pezzi, per creare un piatto che potesse essere mangiato anche solo con la forchetta, come può accadere in un buffet o in una cena in piedi.

Una curiosità: la stella Michelin Roy Caceres, noto chef colombiano, prepara una ricetta meravigliosa declinando in chiave italiana e raffinatissima questo piatto popolare a base di mais. Qui potete vedere il suo  Piccione in foglia di mais, mirtilli e tartufo bianco di Alba




Dosi per 6 -8 tamales (200 g circa)

La marinatura (da preparare la sera precedente)

500 g di acqua, 1 costa di sedano (in estate un peperone verde), 1 carota, 1 cipolla dorata, 2 scalogni , 2 spicchi d’aglio, 1 cucchiaino di paprika, 1 cucchiaino di curcuma, 1 cucchiaino di cumino,1 cucchiaino di sale, 5 g di pistilli di zafferano, 500 g di acqua: riduci in piccoli cubetti (mirepoix) il sedano, la carota, la cipolla e lo scalogno; aggiungi l’aglio e tutte le spezie, e ricopri con l’acqua. Dividi questa marinatura in due parti: 1/3 servirà per il pollo, il resto per la farina di mais (tienili entrambi in frigorifero).

250 g di pollo privato della pelle (coscia, sovracoscia, petto): taglia il pollo in pezzi di 2 cm di lato. Uniscilo ad una parte della marinatura e lascialo in frigorifero per una notte.

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200 g di salsiccia di maiale, due fette di pancetta: porta un pentolino con dell’acqua a bollore, immergi le salsicce precedentemente bucherellate con una forchetta e la pancetta e fai bollire per 3-4 minuti affinchè perdano il grasso in eccesso. Scolale e riducile in pezzi di 2 cm di lato

300 g di farina di mais fioretto, 350 g di acqua di marinatura, 50 g di strutto: metti la farina in una ciotola capiente, unici il brodo ottenuto facendo bollire la marinatura, lo strutto e amalgama per ottenere un composto morbido e compatto.

250 g di ceci, 1 spicchio d’aglio, 1 rametto di rosmarino, 1 foglia di alloro: fai lessare in abbondante acqua con gli aromi per un’ora o fino a quando saranno cotti.

Foglie di banano: lava con acqua calda le foglie, asciugale e passale pochi secondi sulla fiamma per ammorbidirle; tagliale in rettangoli di 15 x 25 cm circa (si taglieranno perfettamente appoggiandole su un tagliere e usando un coltello affilato).

Preparazione dei tamales
Disponi due rettangoli a croce. Poni al centro, nella zona di intersezione/sovrapposizione delle foglie 3 cucchiaiate di mais, alcuni pezzi di carne di pollo, qualche pezzo di pancetta e salsiccia, mezzo cucchiaio di mirepoix di verdure della marinata e un cucchiaio di ceci. Chiudi i 4 lembi delle foglie sovrapponendoli uno sull’altro, come a formare un pacchetto e fermali con dello spago alimentare. Mettili a cuocere in una vaporiera per 1 ora e ½- 2 ore.
Disponi i tamales su un piatto ed elimina lo spago. Vanno serviti tiepidi, chiusi. Si aprono al momento di essere mangiati, lasciando il contenuto adagiato nelle foglie di banano.
Puoi conservare una parte dei ceci e delle verdure per preparare un soffritto, insaporito con del pomodoro, da aggiungere come guarnizione/salsa sopra ai tamles al momento di servirli.




Mousse con cioccolato 99%







Un po’ per studio, un po’ per motivi di lavoro, ho provato a realizzare questa mousse con cioccolato fondente al 99% e pâte à bombe a base latte.
Alcune informazioni sulle caratteristiche di lavorazione e composizione del cacao le trovate qui.

Un paio di osservazioni, invece, che riguardano la percentuale di massa o pasta di cacao. Questa variabile incide nella consistenza di una mousse rendendola più compatta, cioè ne modifica la durezza. Se sia un pregio o un difetto dipende dal nostro gusto e dall’utilizzo o abbinamento che intendiamo fare della mousse.

 Per quanto riguarda il sapore, l’uso di un cioccolato al 99% permette di mantenere in pieno l’intensità del cacao, sentendone l’aroma amarognolo e di frutta secca. Personalmente l’ho trovata stupenda. Ma non sono stata l’unica. Mia figlia e le sue amichette (10-12 anni) hanno esultato e, in stile tipico di chi ha l’età e il fisico per farlo, l’hanno mangiata con biscotti e crema. Che la magrezza le assista sempre!
  
Un cioccolato al 99% (cioè in cui la somma di massa di cacao e burro di cacao costituisce il 99%) contiene più materia grassa di una al 55%, poiché la pasta di cacao usata è maggiore (la pasta di cacao contiene circa il 55% di burro di cacao). Per esempio, 100 g di cioccolato 99% come quello da me usato contiene 49 g di grassi e 8 g di carboidrati; quello al 75 % della stessa marca contiene 45 g di grassi e 32 g di carboidrati. In un cioccolato al latte, i grassi scendono sotto i 40 g, (aumentano molto i carboidrati, tra cui gli zuccheri). Conseguenza: il cioccolato bianco (in cui c’è burro di cacao ma non massa di cacao) contiene meno grassi e più zuccheri di ogni altro cioccolato.

La ricetta è adattata a partire dai dosaggi forniti da L. di Carlo in “Tradizione in evoluzione”.

Va detto, per esattezza che secondo la normativa vigente, laddove il cioccolato contiene non meno del 35 % di sostanza secca di cacao di cui almeno il 31 % di burro di cacao e il 2,5 % di cacao secco sgrassato, si definisce “copertura”.







Dosi per 15 porzioni circa (70 g ciascuna)

Per la pâte à bombe*
140 g di latte, 130 g di tuorli, 140 g di zucchero: porta il latte a bollore con metà dello zucchero, aggiungi i tuorli con il restante zucchero (stempera prima una parte del latte nei tuorli) e riporta su fuoco dolce, fino al raggiungimento della temperatura di 85 °C, girando costantemente con una leccarda.
Un’alternativa veloce consiste nell’unire tutti gli ingredienti e portare il composto alla temperatura di 85 °C nel microonde. Il metodo richiede più accortezza nel verificare il grado di cottura raggiunto (si rischia di far coagulare l’uovo).

Per la mousse
 500 ml di panna, 300 g di cioccolato 99%, 200 g di pâte à bombe*, 6 g di gelatina alimentare: porta la panna a consistenza semimontata; sciogli il cioccolato a 45°C, fondi la gelatina (ammorbidita in acqua fredda) con una parte della panna, uniscila al cioccolato e amalgama bene fino ad avere un composto lucido. In questa fase fai attenzione a mantenere una temperatura vicina ai 25-30°C in modo che la ganasce non cristallizzi. Aggiungi la pâte à bombe montata e incorpora il resto della panna. Riponi in frigorifero per alcune ore.


*Ho preparato 400 g di pâte à bombe, sebbene ne servisse solo la metà per la ricetta, in modo da averne in più come accompagnamento alla mousse. Diluita con della panna, risulta gradevole l’accostamento con l’amaro del cioccolato.






Questo mare mi quadra: terrina di tonno, polpo e granseola




Questo mare mi quadra
Terrina di mare, salsa olandese e coulis di arancia rossa

Ho preso tre prodotti di mare e li ho resi quadrati. La quadratura del quadrato voi direte; lo sanno fare tutti. Più che di quadrato si tratta di rettangolo, anzi trapezio, il cui lato B misura 12.  E far quadrare il lato B12 non è uno scherzo.

Al di là della metafora, questo "trapezio" di terrina di mare è una delle ricette che partecipa al Master MTChallenge- Illato B12 (Alta cucina e salute), che focalizza l’attenzione sul contenuto di questa vitamina nei cibi che mangiamo. E qui viene il difficile. Rispetto a un secolo fa sappiamo molto oggi di alimentazione; abbiamo tutti alcune generiche nozioni di fisica, chimica e biologia che ci aiutano a districarci tra i mille “perché” quando compriamo un ingrediente o cuciniamo. Ma spesso non ne sappiamo abbastanza per arrivare alla giusta conclusione. Immaginate che io dica: “La carne contiene vitamina B12” – “Io mangio la carne” – ergo “Io ho assunto vitamina B12”. Nel sillogismo se le due premesse sono vere, non ne consegue che la conclusione lo sia. Infatti potrebbe darsi che ne abbia assunta... ma anche no. A causa di molti fattori, primo tra tutti, le trasformazioni alle quali sottoponiamo i cibi prima di mangiarli. Eppure commettiamo di continuo errori “epistemologici” (passatemi i l termine) di questo tipo. E più siamo coinvolti emotivamente (e il cibo è l’emoticon per eccellenza!) e più ne commettiamo. Per questo l'industria alimentare ha gioco facile, ahimé.

A questo punto subentra il Master, a colmare le lacune e approfondire le nostre conoscenze, con un approccio il più possibile interdisciplinare. Che ha permesso a me e ad altre 16 partecipanti di realizzare piatti con un significativo contenuto di vitamina B12.
Devo dire che forse non avrei partecipato se ad accogliermi non ci fosse stato questo gruppo entusiasta, disponibile, sempre pronto al gioco e a sdrammatizzare. Sono una riservata, per giunta anche timida, ho sempre guardato con invidia le persone che con naturalezza si lasciano coinvolgere e coinvolgono a loro volta. Perché immagino si divertano un mondo. Quindi ringrazio le compagne di Master, scusandomi se non sono stata “presente” come lo sono state loro. Ma ho sorriso di ogni singola battuta e adesso, a lavoro finito, posso godermi tutte le ricette e farne tesoro.

Chi ricorda i vecchi vinili sa che dal lato A parte il lancio di quello che sarà un successo. Bene, in questo lavoro il “lato A” sono stati i nostri competenti e pazienti tutorCi hanno seguite: Arianna Mazzetta, biologa nutrizionista, che, a proposito di qualità dell’alimentazione, sulla sua pagina Fb ci ricorda di non focalizzare la nostra attenzione su quanti, ma su quali nutrienti ingeriamo; Michael Meyers, oncologo ed esperto di nutrizione, a cui va un particolare ringraziamento per la prontezza con la quale ha risposto ad ogni incertezza e dubbio (e quando sei nel bel mezzo della preparazione e non sai come procedere questo è decisivo!); lo chef Sandro Sità, del TarabellaHotel, con le chiare linee guida sulle regole per comporre esteticamente un piatto; lo chef Marco Visciola del ristorante Il Marin presso Eataly Genova, a cui spetterà il compito di valutare i 17 lavori. In bocca al lupo a lui e un grazie di cuore a tutti, Alessandra Gennaro in primis.




Dosi per 6 persone (stampo da terrina di cm 20x10)

Per la terrina
600 g di polpo, 400 g di tonno pinna gialla tagliato in fette spesse 0,5 cm, 120 g di polpa di granseola, 350 g di patate a pasta gialla, 100 ml di panna liquida, 10 g di gelatina alimentare, 2 cucchiai di erbe aromatiche tritate (timo, maggiorana, prezzemolo), 1 cucchiaino di senape, 1 cucchiaio di aceto di frutti rossi, 2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva delicato, sale, pepe.
 Lessa le patate, sbucciatele, passale nello schiacciapatate, condiscile con sale e pepe e lascia da parte. Cospargi con le erbe aromatiche e un poco di sale le fette di tonno solo da un lato, adagiale su rettangoli di carta da forno (il lato con le erbe a contatto con la carta) e fai scottare in padella antiaderente a fuoco vivo per 30 secondi (la carta eviterà che il tonno si rompa e si attacchi). Togli e tieni da parte.
Taglia il polpo in pezzi e saltali in padella antiaderente con l’olio, la senape e l’aceto per un paio di minuti; fa lo stesso con la carne della granseola, per la quale saranno sufficienti pochi secondi cottura, essendo un crostaceo. Passa tutto al mixer usando la funzione a impulsi affinché il composto risulti tritato in piccoli pezzi ma non completamente frullato.
Intiepidisci la panna e sciogli in essa la gelatina precedentemente ammollata in poca acqua fredda; attendi che il composto torni a temperatura ambiente e uniscine metà al purè di patate, metà al composto di polpo e granchio.
Ungi con dell’olio una terrina e rivestila di pellicola trasparente. Ricopri il fondo e i lati con le fette di tonno, lasciando esternamente la parte cotta con le erbe. Inserisci uno strato di polpo + granchio, ricopri con un secondo strato di patate e infine aggiungi un ultimo strato di polpo e granchio. Sigilla con pellicola trasparente e lascia compattare in frigorifero per almeno due ore.

Emulsione all’arancia rossa
Succo di un’arancia, 80 ml di olio extravergine d’oliva affumicato, 1-2 cucchiai di succo di rape rosse (se si desidera intensificare il colore), 5 g di lecitina di soia, sale, pepe, 1 cucchiaino di succo di limone.
 Inserisci gli ingredienti in un bicchiere ed emulsiona con il frullatore ad immersione sino ad avere un composto denso e ben legato. tieni da parte in frigorifero.



Salsa olandese
3 turoli d’uovo, 175 g di burro, 2 cucchiai di aceto di vino bianco, qualche goccia di limone, sale, pepe, acqua.
Fai ridurre della metà l’aceto con un cucchiaio d’acqua; trasferitelo in un recipiente posto a bagno-maria, aggiungi i tuorli d’uovo e 25 g di burro morbido o fuso e inizia a montare con una frusta, aggiungendo via via il resto del burro. Continua a montare fino ad avere un composto cremoso e gonfio. Tieni in caldo.


Servi la terrina a temperatura ambiente, accompagnata dalle salse e da pane tipo streghe o cialde croccanti. 




Consistenze di tapas



Premessa per gli addetti ai lavori dell'MTChallenge: ho perso le foto in qualche modo (le ho cancellate non so come), per cui ho solo queste che erano di prova. Credo di essere fuori gara, perché non si capisce come e cosa ho realizzato. Pazienza. Ci tenevo comunque a scrivere le ricette visto che ho lavorato una mattinata per realizzarle. :-)))

Grazie a Mai Esteve de Il colore della curcuma e all’MTChallenge  (arrivato a 60!), che hanno proposto l’infinito mondo di tapas, pincho e montadito, portandoci in Spagna. Che meraviglia!


MTChallenge n°60- Las Tapas



Il filo conduttore: “Texturas” di Ferran Adrià, il gioco delle consistenze e della sorpresa portato ai massimi livelli dalla genialità dello chef catalano.
Sia chiaro che non penso di realizzare niente che si avvicini alle sue creazioni. Semplicemente amo la sua magia e ne sono attratta.
Ho utilizzato alcuni dei prodotti (Texturas) che Adrià ha messo a punto per la replicazione delle sue elaborazioni. In alcuni casi possono essere sostituiti con ingredienti di più facile reperibilità. Ad esempio il Glico, per le emulsioni, si sostituisce con la lecitina di soia o con la gelatina alimentare (parliamo di acidi grassi). Voglio dire che all’occhio non digiuno di chimica è sufficiente leggere i componenti dei composti per trovare un’alternativa. Io che così brava non sono, mi affido alle istruzioni dello chef.
Gli ingredienti sono nostrani e per gli abbinamenti dei sapori ho attinto a piene mani a quanto di più tradizionale ci possa essere.
Un colpo al cerchio e uno alla botte, come si dice.



Dosi per 10 pesone

TAPA
Sformato di zucca con crema di olio extravergine d’oliva

Per lo sformato (stampo da 24 cm di diametro)
600 g di zucca trombetta (cucurbita moschata), 1 patata media (150 g circa), 1 cipolla dorata, 100 g formaggio Montasio, 1 uovo di 2 cucchiai d’olio, 2 rami di rosmarino fresco tritato, un pezzetto di zenzero fresco tritato, noce moscata in polvere, sale pepe nero;
25 g di burro, 2 cucchiai di pane grattato.
Fai lessare la patata, privala della buccia e passala allo schiacciapatate, poi tienila da parte. Fai soffriggere la cipolla tritata nell’olio, aggiungi la zucca privata della buccia e tagliata in pezzi di pochi centimetri di diametro e le erbe/spezie e cuoci a fuoco moderato fino al disfacimento della polpa. Aggiungi il formaggio grattugiato e frulla con un frullatore ad immersione fino ad avere una crema liscia; aggiungi l’uovo e il purè di patate ed amalgama completamente aiutandoti con una frusta. Condisci con sale e pepe.
Imburra lo stampo e cospargilo di pane grattato. Versa il composto e inforna a bagnomaria per 1 ora alla temperatura di 180-190 °C. Lascia raffreddare.

Per la crema di olio (1 sifone)
100 g di olio extravergine di oliva, 30 g di acqua o brodo vegetale salati, 10 g di Glice: scalda l’olio e sciogli in esso il Glice; aggiungi gradatamente l’acqua, miscela e versa nel sifone, caricando con 2 fiale di azoto. Riponi in frigorifero per 2 ore.
Porziona con un coppapasta lo sformato e servirlo tiepido, accompagnato da mandorle tostate e tritate, dalla crema salata di olio e abbondante pepe. 





PINCHO
Cestino di fillo con razza e caviale di broccolo romanesco

Per la razza
400 g di razza, 1 scalogno, 1 costa di sedano, 1 carota, 2 rametti di timo, 1 spicchio di aglio, 100 ml di aceto di mirtillo, la scorza di 1 limone grattata, olio extravergine d’oliva affumicato, sale, pepe nero: prepara un brodo con lo scalogno, il sedano, la carota, l’aglio e l’aceto, immergi il pezzo di razza e fai cuocere fino a che le carni siano completamente bianche e tenerissime. Elimina le cartilagini, asciuga il brodo e condisci con la scorza di limone, l’olio affumicato, sale e pepe.

Per il caviale di broccolo
250 g di broccolo romanesco (cime e foglie), 3 g di Algin, 6 g di Gluco: fai sbollentare il broccolo in abbondante acqua salata il tanto che basta ad ammorbidire la consistenza (deve rimanere verde brillante); freddalo immediatamente in acqua ghiacciata, passa al frullatore ad immersione e filtra con un passino fine. Stempera Algin in 125 g di questo passato amalgamando con il frullatore ad immersione. Metti in sottovuoto o lascia una notte in frigorifero (deve essere eliminata l’aria incorporata all’interno). Prapara una ciotola fonda piena d’acqua e sciogli in essa il Gluco. Prepara il caviale prelevando con una siringa il passato di broccolo e “sparandolo” lentamente nell’acqua, come se si volessero far cadere tante gocce. Una volta formate le sfere di caviale, rimuovile dal bagno e trasferiscile in una seconda ciotola con acqua minerale.

Per i cestini di fillo (stampini in silpat o piccoli pirottini da forno)
2 fogli di pasta fillo: rivesti gli stampi con un doppio strato di pasta e cuoci in forno a 180 °C per dieci minuti circa, o fino a doratura.

Infilza i cestini con uno stecco, ricoprine il fondo con molliche di pane, riempi con dei pezzetti di razza e decora con il caviale di broccolo.






Montadito

Toast con prosciutto infornato e sfera di diospero vaniglia

20 bruschette o fette piccole di pane integrale (io ho usato pane di segale e semi misti), 200 g di prosciutto di Parma, 2 fette di lardo di Colonnata, 2 diosperi vaniglia,6 ml di Gluco, 3 ml di Algin, 1 ml di Citras, qualche rametto di timo, pepe: sbuccia e frulla la polpa del diospero, passala al setaccio conservando la parte liquida ed eliminando quella fibrosa; unisci Citras e Algin e amalgama con il frullatore; metti in sottovuoto o in frigorifero per una notte (per eliminare l’aria incorporata).
Fai tostare le fette di prosciutto tagliate spesse in forno a 200 °C fino a quando siano ben rosolate, tagliale a fiammifero e tieni coperte da parte; sciogli il lardo delicatamente (a fuoco molto dolce o in microonde), aromatizzalo con il timo e spennella la superficie del pane.
Prapara una ciotola fonda piena d’acqua e sciogli in essa il Gluco. Preleva con un cucchiaio la crema di diospero e immergila nel bagno di Glico. Attendi che si formi la sfera e trasferiscila in una seconda ciotola con acqua minerale.

Componi il montadito sovrapponendo pane, fiammiferi di prosciutto e sfera di diospero.



bottoncini di pane al latte di riso






Ho imparato questa ricetta da un’amica, la bravissima pasticciera Alessandra Ripanti, che lavora con prodotti biologici. Quando ha preparato i suoi panini, ha usato farina di buratto. Sappiamo che non è facile usare farine biologiche e per giunta integrali per panificare (la quantità di glutine delle farine biologica atta a dare forza e quindi cruciale per la lievitazione è inferiore rispetto a quelle non biologiche), quindi doppiamente brava lei, perché il risultato è stato eccellente. In alternativa, si può usare una farina con grado di abburattamento 1, quindi molto meno raffinata della 00, ma non integrale al 100%. A prescindere da scelte salutiste, la decisione di usare un ingrediente per me dipende dalla sua resa in termini di gusto e di aspetto della ricetta realizzata. Farine come queste hanno un gusto più intenso e pieno. Per lo stesso motivo trovo che l’uso del latte di riso sia funzionale a non coprire, ma anzi esaltare, il gusto del cereale.

La caratteristica di questi bottoncini (sono così piccoli!) è la facilità di esecuzione. Possono essere fatti con i bambini e loro impazziranno a mangiarli, farcendoli con qualunque cosa, dalla marmellata alle fette di salme e formaggio.  Sbagliare è praticamente impossibile.



Per 12-14 panini

250 g di farina 1, 150 ml di latte di riso, 25 g di burro, 10 g di zucchero, 5 g di sale, 3 g di lievito di birra fresco : Metti la farina a fontana e aggiungi il latte in cui avrai sciolto il lievito di birra. Impasta per amalgamare tutto il liquido, unisci il burro ammorbidito a pomata, il sale, lo zucchero e continua ad amalgamare. Impasta per almeno 10 minuti, forma una palla e lascia riposare per mezz’ora circa coperta con pellicola trasparente. Allarga l’impasto a formare un rettangolo, arrotolalo su se stesso secondo il lato lungo e lascia questo filoncino a riposare ancora mezz’ora. Taglialo in pezzetti del peso di 30 g circa e forma con ognuno di essi delle palline. Ponile ben diatanziate sulla teglia da forno rivestita con pellicola trasparente; copri con pellicola e lascia lievitare fino al raddoppio del volume (ci vorranno circa 2 ore).

50 ml di latte di riso, semi di sesamo bianco e nero q.b.: Preriscalda il forno a 200 °C. Spennella la superficie superiore dei bottoncini con il latte e cospargili di sesamo,  inforna e abbassa la temperatura a 185 °C. Cuoci per 15 minuti circa, o fino a quando saranno dorati sopra e sotto. Lasciali raffreddare appoggiati su una griglia. 






Ciambelline agli arachidi, l'aperitivo è servito.





In cucina difficilmente si inventa qualcosa. Inconsapevolmente o meno, non facciamo che mettere a frutto ciò che abbiamo appreso negli anni dedicandoci a questa attività. Oppure realizziamo in modo autonomo lo stesso percorso/processo creativo di altri, giungendo alle medesime conclusioni.

Ho preparato queste ciambelline pensando alla classica ricetta di quelle dolci al vino, sostituendo banalmente le arachidi macinate allo zucchero e ottenendo perciò una preparazione salata e dall’inconfondibile sapore di nocciolina. La piacevole sorpresa, oltre al sapore davvero buono, è l'estrema fragranza: non sono né secche o tendenti ad indurire (come può succedere per quelle dolci, a causa dello zucchero), né compatte.  Perfette per un aperitivo, creano un po’ di dipendenza, perché si tende a mangiarne più di una.

Ho cercato una ricetta analoga facendo un po’ di indagine in rete. Nulla. Possibile? Ho appena sostenuto che in cucina non si inventa niente! Datemi lumi, magari.



Ingredienti per circa 25 ciambelline

400 g di farina 00, 130 g di olio di arachidi, 130 g di vino bianco secco aromatico, 140 g di arachidi tostate e salate, 1 cucchiaino di bicarbonato di sodio, 1 cucchiaino di cardamomo in polvere: frullate le arachidi fino a ridurle in polvere; ponete la farina a fontana, unite al centro i liquidi, la polvere di arachidi, le spezie e il bicarbonato e impastate tutto brevemente, quanto basta per avere una massa compatta. Su una spianatoia o un piano di marmo formate dei cilindri di 1 cm di diametro, tagliateli in pezzi di 10 cm circa e chiudete ognuno di essi a formare un cerchio, sovrapponendo e pressando le estremità. Preriscaldate il forno a 180 °C. Rivestite una teglia con carta da forno, adagiatevi le ciambelline e cuocete per 30 minuti circa. Lasciate raffreddare prima di servire.
Si conservano bene per diversi giorni in un contenitore ermetico o in un sacchetto sigillato.







Coda alla vaccinara


 Per AIFB, Associazione Italiana Food blogger, ho realizzato un anno fa questo contributo sulla coda alla vaccinara. Lo trovate sul sito nella sezione Food Trotter, ma anche qui. Buona lettura.





Storia di una coda che divenne vaccinara  

 “Ormai me reggo su ‘na cianca sola. - Diceva un grillo - Quella che me manca m’arimase attaccata a la cappiola. […]. Ripeto tra me e me la storia del grillo di Trilussa (“Favole romanesche”, 1901), imparata a memoria da bambina, mentre percorro la stretta strada dissestata che, costeggiando il Monte dei Cocci del quartiere di Testaccio, a Roma, mi porta all’ingresso del Mattatoio. Lo chiamiamo ancora così noi romani di una certa età.  È l’EX-mattatoio, in verità. Chiuso dal 1975. Nei decenni successivi a quella data si è trasformato, ospitando al suo interno: il Museo MACRO di arte contemporanea, una delle facoltà di architettura della capitale, il centro di cultura omosessuale M. Mieli con gli eventi serali di “Muccassassina” (geniale scelta del nome!), il mercato e spazio espositivo di economia ecologica ed equo-solidale, una scuola di musica e tanto altro, comprese occupazioni e centri sociali. In un certo senso, il vecchio macello ha ceduto il passo ad un nuovo “macello”; il primo era di morte, il secondo è vitale e creativo.

  

                              All’ingresso, la scritta: “Stabilimento di mattazione”



 La ristrutturzione ha mantenuto i binari su cui scorrevano i ganci per gli animali



                                          L’interno di una delle stalle




In questo luogo si può capire la storia di un piatto romano tra i più celebri: la coda alla vaccinara. Mi sembra di sentire la voce del vaccinaro appoggiato al muro di una stalla, un po’ curvo, braccia e mani forti:
A more’, che stai a cerca’? Qua nun ce stà più gniente!” E osservando il mio sguardo che scandaglia ogni angolo del posto, continua: “Capirai, me ce so’ rotto l’ossa qua dentro.” E mi racconta che i vaccinari, detti anche “scortichini”, erano le persone che svolgevano nel mattatoio il lavoro più faticoso di scuoiare le carcasse degli animali. E per questo venivano ricompensati con le parti meno pregiate delle povere bestie, il famoso quinto quarto (gli organi interni o frattaglie, parti della testa, coda, lingua, zampe), che finivano nei tegami delle cucine del quartiere, assai povere di ingredienti ma piene di tanta buona volontà. E di tempo. Per trasformare quei pezzi di carne in piatti saporiti e nutrienti. 
Le voci di un gruppo di studenti universitari che passano fuori mi distoglie dal mio sogno e mi riportano al presente. Devo parlare con persone reali, non con i fantasmi. Voglio sapere com’è nata la ricetta. O meglio, più che l’origine (intuibile dal nome), di sicuro nelle case dei vaccinari e di chi aveva il compito di sfamare i lavoratori della zona, la sua codificazione.  Chi meglio di “Checchino” può spiegarmelo?!









Lo storico ristorante “Checchino dal 1887” nel cuore del quartiere Testaccio di Roma (fotografia del sito www.checchino-dal-1887.com)








Il ristorante “Checchino dal 1887” nasce come molti altri nel quartiere Testaccio come osteria, adatta a soddisfare una clientela di industriali, commercianti, negozianti e impiegati della pubblica amministrazione, che qui lavoravano e amavano il buon cibo accompagnato dal vino rinomato dei Castelli Romani. Non devo fare altro che uscire dal Mattatoio ed attraversare la piazzetta. Ecco l’ingresso. Dove mi aspettano Francesco ed Elio Mariani, eredi di quinta generazione insieme alla sorella Marina. Elio mi racconta che i tre fratelli sono cresciuti proprio curiosando all’interno del Mattatoio. Mi spiega che la loro osteria, come consuetudine nella zona, era inizialmente solo una mescita di vino, dove i “fagottari” (le persone che venivano da fuori e si portavano il “fagotto” con le provviste da mangiare) prendevano un tavolo e ordinavano da bere consumando il cibo di casa. Poi, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con l’apertura del Mattatoio, le mescite iniziarono a preparare i piatti a base di carne: animelle fritte, fegato in padella, coratella con i carciofi, zampetti in umido, rigatoni con la pajata, coda alla vaccinara.
Mi interessa sapere come probabilmente sarà cambiato il piatto nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Le carni oggi sono più magre e ciò incide sul loro sapore. L’attenzione alla materia prima è tutto. I Mariani si affidano a produttori che rispettano il più possibile i ritmi di crescita naturali dell’animale. Stessa cosa per i prodotti lavorati utilizzati. La ricetta originale prevedeva l’uso di lardo, che attualmente viene in parte sostituito dall’olio d’oliva. Colpa delle diete. Peccato! C’era poi l’abitudine di cuocere insieme alla coda i gaffi, le guance della bestia. Era l’unico modo per mangiarli, perché sono durissimi. Si può capire: stiamo parlando di un ruminante. Oggi questa è una parte quasi impossibile da trovare. E poi arriviamo alla faccenda dell’utilizzo di uvetta, pinoli e, addirittura, cacao amaro. L’uso di questi ingredienti non c’era in origine; è un aggiunta successiva, quando il piatto si è diffuso tra le classi benestanti. Molto benestanti. Nobiltà e papato ne avevano disponibilità e li usavano per arricchire e ingentilire una ricetta altrimenti troppo forte per i loro palati.
E il vino? Non credo ci sia mai stato un abitante di Testaccio che si sia fatto fuori un piatto di coda senza un buon bicchiere. Poiché ho di fronte a me non uno, ma due, sommelier, posso imparare che la ricetta si abbina senza scomporsi ad un Brunello di Montalcino o persino ad un Bordeaux. Ma rivolgendoci ai vini laziali, ci orientiamo verso un Cesanese del Piglio DOCG (come Il torre del Piano) o uno Syrah (ad esempio il Tellus). A proposito di bottiglie, la cantina del ristorante “Checchino” sono uno spettacolo. Come altri ambienti sotterranei del quartiere, testimoniano l’origine del Monte Testaccio: un ammasso ordinato di “testae” (da cui il nome del quartiere: “testaculum”), cioè anfore romane, in cui venivano trasportati  principalmente olio e vino. Esemplare la capacità di riciclaggio: i contenitori venivano spaccati in modo da dividere il collo, la pancia e i manici, poi sovrapposti separatamente, a formare ammassi e muri omogenei, così che le parti uguali aderissero in modo stabile. La nostra raccolta differenziata ai loro occhi apparirebbe ridicola. Ahimé!
Mi congedo dal ristorante e da Testaccio ripercorrendo la strada a ritroso e mi permetto una riflessione filosofica. Avvicinandosi alla storia dei nostri piatti, rifletto sull’espressione “Siamo ciò che mangiamo” di L. Feuerbach (“Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, 1862), oggi ripetuta come unico mantra. Mi viene spontaneo affiancarla al suo opposto (par condicio?): quello che noi siamo (eventi storici, trasformazioni sociali, evoluzione culturale) crea e modifica la natura e la qualità di ciò che mangiamo. Il cibo non è la causa, semmai l’effetto. Ma il sole è già alto. E si avvicina l’ora di pranzo.





 CODA ALLA VACCINARA







Sebbene esistano diverse versioni e varianti sugli ingredienti e le preparazioni, mi sono attenuta alla ricetta fornita dal ristorante “Checchino dal 1887”, Via Monte Testaccio, 30 - Roma
Le quantità che riporto sono dedotte sulla base delle indicazioni fornite dalla fonte citata.

Per 4 persone.
Tempo: 45 minuti di preparazione, 4-5 ore di cottura.

Ingredienti
Una coda di bovino adulto (si trova già tagliata in pezzi di circa 5-7 cm di spessore e pronta per la cottura)
50 g di lardo
1 dl di olio extra vergine d’oliva
1 cipolla dorata tritata
2 spicchi d’aglio
2 chiodi di garofano
200 ml di vino bianco secco (si preferisce quello dei Castelli Romani)
1,5 kg di pomodori pelati
500 ml circa di acqua bollente (o brodo)
Sale
Pepe
150 g di coste di sedano bianco
20 g di pinoli
20 g di uva sultanina ammollata in acqua

In un tegame con fondo spesso e bordi alti fate soffriggere il lardo con l’olio. Unite i pezzi di coda e rosolateli da ogni lato. Aggiungete poi la cipolla tritata, gli spicchi d’aglio, i chiodi di garofano, sale e pepe. Lasciate dorare per qualche minuto, quindi bagnate con il vino e fate evaporare lentamente chiudendo il tegame con il coperchio. Dopo un quarto d’ora aggiungete i pomodori pelati tagliati in pezzi e lasciate cuocere ancora quindici minuti. Unite l’acqua (o brodo) bollente nella quantità sufficiente a ricoprire tutti i pezzi di coda. Chiudete con il coperchio e lasciate cuocere a fuoco dolce per 4 ore o finché la carne sia così tenera da staccarsi dall’osso, aggiungendo un poco di acqua ti tanto in tanto se necessario.
A fine cottura, lavate le coste di sedano, privatele dei filamenti esterni e tagliatele in pezzi di 10 cm di lunghezza. Sbollentatele per 5 minuti in acqua salata. Scolatele e fatele insaporire in un tegame a parte con 300 g del sugo di coda, aggiungendo anche i pinoli e l’uvetta e lasciandole cuocere per 5 minuti. Unite questa salsa di sedani ben calda alla coda al momento di servire. 










© Gourmandia

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